Più aumento scorte che reshoring: il ridisegno delle supply chain alla prova dei fatti

Posted by Dario Favaretto

Cosa resta del dibattito sulla regionalizzazione delle supply chain e sulla gestione dei rischi a due anni dallo scoppio della pandemia di Covid-19 che in qualche modo lo ha generato? Molto, anche se le ambizioni rivoluzionarie dei supply chain director in questo senso si sono dovute spesso scontrare con la realtà.
Sul tema è tornata McKinsey&Company che, dopo avere intervistato un campione di manager nel 2020, ne ha risentito un altro di analoghe caratteristiche nel 2021 per capire se e quali strategie per mettere in sicurezza o rendere più flessibili le supply chain siano state davvero implementate.

Nella prima indagine, il 93% dei dirigenti dell’area supply chain intervistati aveva dichiarato di voler rendere le proprie filiere più flessibili, agili e resilienti. Un anno dopo il 92% degli interpellati ha affermato di averlo fatto davvero, ma gli interventi attuati sono stati diversi rispetto a quelli immaginati. Se nel 2021 la maggior parte delle aziende programmava di voler intervenire su più fronti – aumentando le scorte di prodotti, componenti e materiali e regionalizzando le forniture – la prova dei fatti ha mostrato che le azioni hanno riguardato perlopiù il primo aspetto.
Le aziende inizialmente avevano pianificato di aumentare il near-shoring dei fornitori per aumentare la resilienza, ma hanno finito per incrementare le scorte” è la sintesi del report.
Le iniziative sono state diverse a seconda del settore considerato. I più attivi sono stati gli operatori di quello sanitario, che hanno applicato in modo più ampio le misure (il 60% degli intervistati ha detto di avere regionalizzato le proprie catene di approvvigionamento e il 33% di aver avvicinato la produzione ai mercati finali). Solo il 22% degli intervistati dei settori automotive, aerospaziale e difesa ha regionalizzato la produzione, nonostante più di tre quarti di loro avesse dato la priorità a questo punto nel sondaggio del 2020. Le aziende di prodotti chimici e materie prime sono infine quelle che hanno modificato meno le loro catene di approvvigionamento durante l’ultimo anno. A spiegare le differenze secondo McKinsey sono le caratteristiche strutturali delle industrie coinvolte (quelle chimiche ad esempio necessitano di siti di produzione grandi e costosi e quindi di investimenti che richiedono anni per essere completati) ma anche le difficoltà nel trovare fornitori per i propri progetti di re/nearshoring.
Ciononostante, la regionalizzazione delle filiere resta una priorità e il 90% degli intervistati ha detto di voler perseguire questo obiettivo nei prossimi tre anni (la totalità degli appartenenti al settore sanitario e a quello di infrastrutture e costruzioni ingegneristico in particolare lo ritiene fondamentale).

Un ambito su cui questi due anni hanno inciso molto è inoltre quello della gestione del rischio, diventata tra le prime preoccupazioni delle aziende. Per la prima volta, la maggior parte degli intervistati (95%) ha detto di avere al suo interno processi di questo tipo per gli approvvigionamenti e il 59% di averne approntati di nuovi negli ultimi 12 mesi. Se il 4% ha istituito da zero una nuova funzione di gestione del rischio, la maggior parte degli intervistati ha però rafforzato capacità già esistenti.
Le iniziative avviate sono state differenti a seconda dell’esperienza già conseguita dalle aziende in questo ambito: le organizzazioni più mature hanno sviluppato nuove pratiche, i ‘nuovi’ hanno acquistato software dedicati.

Secondo McKinsey, anche tra chi effettua un monitoraggio dei rischi della propria supply chain restano però alcune criticità. Meno della metà degli intervistati conosce infatti l’ubicazione dei fornitori di primo livello e solo il 2% conosce quella dei supplier di secondo o ulteriore livello.

Un altro ambito toccato dalla ricerca riguarda la digitalizzazione. La stragrande maggioranza degli intervistati ha detto di avere investito in tecnologie per la supply chain, e per molti settori tali investimenti sono stati nel 2021 superiori a quelli pianificati inizialmente. In particolare, gli operatori dell’automotive erano riluttanti a impegnarsi in questa direzione nel 2020, ma il 100% di loro alla fine lo ha fatto. Quasi tutte le aziende prevedono anche ulteriori investimenti digitali in futuro.

Le iniziative in corso e quelle pianificate si stanno concentrando soprattutto sulla visibilità. Ad esempio, dal maggio 2020, il 30% degli intervistati ha implementato nuovi sistemi di gestione e monitoraggio delle performance ma, nonostante l’esperienza degli ultimi due anni, solo il 39% delle aziende sta investendo in strumenti specifici per monitorare i rischi e le disruption. Un limite continua a essere la (scarsa) presenza di competenze digitali all’interno delle aziende, certificato dagli stessi intervistati dato che solo l’1% di loro pensa che la sua azienda ne abbia in misura “sufficiente”.

Fonte: Supply Chain Italy

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