Quel che resta del CES 2020: l’eterna promessa della tecnologia (e 5 tendenze da tenere d’occhio)

Posted by Dario Favaretto
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Al CES solitamente si va per poter raccontare a chi è rimasto a casa, sui social o sui giornali, le grandi novità tecnologiche dell’anno. O le stramberie da baraccone: i robot porta carta-igienica, quelli che giocano a ping pong, il water autopulente, le smart potatoes, il ballo cieco e muto con i visori a realtà aumentata…

La casa del CES, come tutti sanno, è Las Vegas: è inizio anno, e la città aiuta a sognare, a volte a scambiare lucciole per lanterne. Tra gli operatori poi c’è sempre una certa frenesia da scoop, da velocità immediata per tentare di dare per primi (difficile in un evento con oltre tremila giornalisti accreditati da tutto il mondo) immagini e storie. Eppure da questo CES 2020 si torna con una sensazione strana.

Sì certo, ci sono i taxi volanti di Hyundai e Uber, concept car sensazionali, smart city (vere) in via di costruzione e avatar digitali…ma in fondo, niente di veramente tangibile che rivoluzioni davvero lo scenario. Come la rincorsa a un’eterna promessa che si sposta sempre un po’ più in là. E infatti, lei, l’unica grande tecnologia che potrà veramente cambiare il mondo, il computer quantico, è conservata sotto teca, quasi come un ammonimento, nell’area di raccordo tra due padiglioni, quello dedicato all’automotive-non più automotive e l’area degli schermi giganti che l’anno passato ci aveva promesso e parzialmente dato schermi avvolgibili e smartphone con lo schermo pieghevole. Qui un novello “banditore” di IBM, con una colorata cresta in testa, affiancato da un altro tecnico molto più grigio, spiegano, a una piccola folla che si ricrea di continuo caratteristiche e promesse dei qbit. Come tenere un convegno scientifico nel mezzo di un luna park.

Il Ces 2020 è un po’ così: un ossimoro continuo, un acquario di tecnologie in cui nuota un numero di giornalisti spropositato (ma in forte calo) e con non tanti scoop da gridare al mondo.

 

  1. L’automotive è morto, viva l’automotive

Nel mezzo del padiglione dedicato all’automotive spicca lo stand di Amazon. Non è un booth particolarmente bello. Ma dopo un po’ che lo guardi – un’auto, una bici, Alexa, e le soluzioni per la vendita – inizi a chiederti: cosa ci fa Amazon tra BMW e Audi? Offre, a vario titolo e con vari partner, soluzioni di mobilità. A dire il vero già all’entrata del megapadiglione una Lamborghini rossa ricordava l’accordo qui siglato per installare, già embeddato, Alexa sui bolidi di Sant’Agata Bolognese. Poco distante Osram, sì quella delle lampadine, ci fa sapere che la mobilità di domani va alla velocità della luce. Sony presenta una concept car. Samsung, che quest’anno è ovunque, pure. E le case automobilistiche? Toyota presenta Woven City, smart city per duemila persone che sorgerà ai piedi del monte Fuji per sperimentare un nuovo modo di vivere città e mobilità. Hyundai punta con Uber sui taxi volanti in un concetto di mobilità integrata ad uso di città verticali tutte da immaginare e soprattutto normare. Per il resto è un fiorire di auto a guida autonoma, avatar, concept car che chissà mai se vedranno la luce. Tutti fanno tutto. «Ma se tutti fanno tutto, chi fa bene cosa?». È Alberto Mattiello, autore di Cromosoma Innovazione (Guerini), veterano del CES, a farci da Cicerone in questo girone infernale del futuro. In un panorama in cui tutte le auto e gli shuttle a guida automa sembrano uguali (parallelepipedi simpatici e smussati, dei salottini viaggianti) il destino ineluttabile di cui si parla è fatto di megafabbriche condivise in cui si assemblano mezzi a guida autonoma come fossero lego. In cui la differenza la faranno software e personalizzazione, difficilmente motore e prestazioni. «L’auto come commodity», riassume Massimo Fumarola, chief project management officer di Lamborghini. Uno scenario agghiacciante per la filiera dell’automotive. O forse no.

«In questo eterno “forse”, a imporsi – prevede Mattiello – sarà proprio chi riesce a realizzare verticali molto specifici, così specifici da non essere conveniente da replicare. E infatti, mentre tutti investono sulla sensoristica della guida autonoma, gli italiani più lungimiranti, come Streparava, investono sullo chassis robotizzato di Rob.Y».

Tra tanti punti di domanda la certezza che emerge è che rispondere ai bisogni di mobilità degli utenti, dalla micro alla macro, voglia dire conquistarseli per sempre. Come se tutto il valore ruotasse al bisogno di spostarsi: in modo efficiente e discreto, connesso e personalizzato. O come se lo sviluppo della tecnologia, come è poi avvenuto in gran parte del secolo scorso, fosse guidato proprio dal settore della mobilità. Ma stiamo parlando di software o hardware, di auto o di città?

 

  1. Un robot per casa: ma cos’è un robot?

Se c’è stato un effetto wow di questo CES, taxi volanti a parte, questo ha la forma di un robot giallo grande poco più di una palla da tennis. Ballie segue il suo «padrone» nell’ambiente domestico, è un robot companion. Presentato da Samsung nel keynote d’apertura, è dotato di una telecamera che svolge un duplice ruolo: interagire con l’utente e farne da vece, diventando i suoi occhi, in sua assenza. Di fatto Ballie è un maggiordomo robotico intelligente, poco ingombrante, capace di governare la smart home per conto del padrone. Un po’ la fusione tra un assistente vocale e un robot. Ma poi cos’è un robot? Il sistema si sta completamente divaricando: da una parte quelli tradizionali, da fabbrica potremmo dire, che basano la loro ragion d’essere sull’esecuzione di compiti precisi, più o meno collaborativi. Dall’altra i social robot, assistenti più o meno androidi, che puntano a risolvere i problemi dell’invecchiamento, dell’assistenza, della delivery, che sia indoor o outdoor.  L’altra grande novità del CES, sempre partorita in casa Samsung, ma presentata in modo del tutto autonomo, è stata Neon: si tratta di un avatar digitale di persone che sembrano reali ma non sono mai esistite. Quel che colpisce è il realismo di movimenti e interazioni ricreate grazie a una piattaforma chiamata CORE R3 (Reality, Realtime and Responsive). Non è fisica, non è un robot ma è di fatto un’interfaccia, un potenziale assistente che potrebbe semplificare l’approccio utente-software in diverse situazioni: dalla banca al check in dell’aeroporto. Non è in grado di autoapprendere veramente – per fortuna nessuno si sogna di vendere favole – ma assomiglia a un chatbot con faccia, corpo ed espressioni molto reali: uno human-bot.

 

  1. Il 5G è qui ed entra in casa

Dietro a tutto, vera e tra noi, c’è la connessione 5G che abilita gran parte dei ragionamenti di cui sopra. Secondo i dati presentati dalla Consumer Technology Association, il sorpasso tra connessioni 4G e 5G avverrà completamente nel 2022, ma già dal 2021 si inizierà a far sul serio. Sul mercato americano quest’anno i device 5G venduti saranno circa 20 milioni, contro i 145 a 4G. La proporzione si invertirà solo nel 2023 con 133 milioni di pezzi a 5G. L’ingresso definitivo del 5G nel mercato rivoluzionerà il concetto stesso di IoT (da Internet a Intelligence of Things, propone proprio la CTA) portando con sé l’esplosione della Smart Home: non più un’area dove alcuni oggetti si collegano alla rete coordinati dall’utente uno per volta, ma una rete neurale di smart devices cui dare un cervello digitale finalmente funzionante. Non è un caso che sia la casa l’ambientazione di gran parte delle tecnologie esistenti: questione di mercato e di costi, chiaro, ma anche di concetto. La «massive IoT» in arrivo vive di dati personalizzati: tantissimi device e tanti dati per avere indicazioni puntuali sulle persone e sugli ambienti in cui si muovono.  La «consumerization» dell’Artificial intelligence si esplica in casa, nelle nostre attività sportive, nel digital health. O almeno qui si insegue, grazie alla tecnologia, il mercato di massa, a caccia del killer product.

 

  1. Eureka Park, il giacimento delle startup

Poi alla fine, lasciato il luna park, i megastand delle big company, la parte più interessante del CES rimane sempre quella di Eureka Park, quella dedicata alle startup. Tra le 1.200 startup (gli espositori del CES sono 4.500) si trova di tutto, soprattutto si riscontra un fenomeno particolare e sempre interessante, la maturazione di idee e prodotti in contemporanea in diverse parti del mondo: lo stesso braccio bionico in Italia e in Korea, le stesse lettiere robotiche per gatti. Se si scansionassero tipologie di prodotti e servizi per aree geografiche si potrebbe capire molto delle esigenze e delle culture imprenditoriali dei diversi Paesi. E poi idee frizzanti, team agguerriti, business model improvvisati, altri solidi. Come quello degli italiani-lussemburghesi di Anote: il suo fondatore, Marzio Schena, sta iniziando a gestire librerie-musicali come fondi su cui investire. Proviene dal settore della gestione, che conosce bene, e il nuovo business promette ritorni sicuri in un mercato vergine alle logiche finanziarie. Semplice, sicuro, scalabile. Non è un caso che nell’ultimo giorno della manifestazione, quando i padiglioni tradizionali si svuotano, Eureka Park si riempia di uomini d’affari a caccia di idee, prodotti e team. Questa è l’area che non si spegne mai, il nuovo CES che esce dall’elettronica di consumo delle origini e si apre alla sperimentazione.

 

  1. Italia ed Europa contro il resto del mondo

In questo campionato del mondo delle startup gli italiani sono pochi. Ma anche i tedeschi. Carini gli svizzeri, una valanga i francesi (400 stand organizzati a livello centrale). Ma comunque sia manca l’Europa. Nella guerra globale tra Usa e Cina, con quest’ultima camuffata o elisa volontariamente, solo Korea e Giappone si contendono lo stage del CES. Eppure qualcosa si muove: E-Novia, la Fabbrica di Imprese (disclaimer: Blum ne è consulente), esce da Eureka Park e dà vita, nel pieno del padiglione robotico, a uno stand con 8 prodotti hi-tech di cui tre premiati; Tilt – Made in IT la missione che ha portato 47 startup italiane a Las Vegas ha alzato ulteriormente il tiro e ricevuto la visita del ministro all’Innovazione Paola Pisano. Il primo ministro italiano al CES si è sentita in dovere di presentare qui un piano “Made.IT”, che è anche un marchio, e che punta a far crescere e promuovere le startup digital e tecnologiche italiane all’estero. Un piano un po’ arzigogolato, ambizioso, che nella parte in cui vuol fornire supporto tramite gruppi di esperti fa un po’ tremare i polsi. Difficile in realtà commentare delle slide: meglio aspettare e fare un grosso in bocca al lupo, ricordando però sommessamente che gli esperti, soprattutto in questo campo, forse li decide il mercato e che alla politica spetterebbe creare condizioni generali diverse. Anche perché pensare che l’Italia possa diventare “il” Paese in cui fare startup rischia di suonare un po’, come dire, “over promizing”.

C’è stato molto altro al CES. Soprattutto perché il CES è anche, in gran parte, fatto di incontri chiusi e riservati ad accesso ultra-elitario. I veri affari si fanno lì. Ma anche, a dire il vero, a cena e nelle passeggiate tra gli stand tra amici che si danno appuntamento una volta all’anno. Sicuramente non si fanno a convegni e a keynote speech che somigliano sempre più a concerti dello star system. L’ultima immagine, prima di ripartire dal McCarran Airport, è quella captata allo stand della Delta.  C’è un uomo avvolto in un esoscheletro. Sembra Robocop in fin dei conti. Ma è con quell’esoscheletro che quell’uomo (già mediamente grosso il doppio di un qualsiasi europeo) può sollevare senza fatica e senza pericolo valigie molto pesanti. Valigie immense cariche di sogni.

fonte: EconomyUp

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